Electrolux & FIAT: aziende che fuggono, ancora | The Fielder


Chiusi i cancelli

Chiusi i cancelli

da “The Fielder” di  Pubblicato il 5 Febbraio 2014

Le cronache economiche della settimana scorsa sono state segnate da due fatti principali: il caso Electrolux e la nascita della multinazionale Fiat Chrysler Automobiles (FCA). Di primo acchito, le due vicende non sembrerebbero cosí dirompenti: una parrebbe la solita pretesa di ridimensionare il costo del lavoro, e l’altra la pluriannunciata internazionalizzazione del gruppo FIAT all’indomani dell’acquisizione completa di Chrysler — ma non è cosí. Le due notizie s’inseriscono in uno scenario, quello italiano, che da tempo sta vedendo la moría di piccole e medie imprese e la fuga di coloro, aziende e professionisti, che hanno l’occasione di rifugiarsi all’estero. Già ne avevamo parlato qualche mese fa, raccontando di quelle aziende che, approfittando della pausa estiva, avevano chiuso gli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero; ma questi due casi permettono d’analizzare al meglio i veri punti deboli del sistema-Italia.

Iniziamo da Electrolux. Electrolux è una multinazionale svedese ch’è stata il piú grande produttore al mondo d’elettrodomestici per la casa e per uso professionale, ma che con gli anni ha visto il proprio primato sfumare, sia per la crescita della prima concorrente, Whirlpool, sia per la costante quota di mercato erosa dai competitor asiatici, Samsung e LG in primis, che, forti d’una maggior competitività nei costi di produzione, hanno potuto immettere sui mercati prodotti d’alta gamma a prezzi concorrenziali. In Italia, essa è presente con cinque stabilimenti, ereditati dalle aziende assorbite col tempo (come la REX o la Zoppas) e situati nei Comuni di Solaro, Pordenone, Porcia, Forlí e Susegana.Il calo dei profitti registrato negli ultimi anni ha portato la dirigenza a dover attuare un nuovo piano industriale, vòlto all’aumento della produttività e al contenimento dei costi. Cosí, Electrolux ha annunciato la chiusura degli stabilimenti in Australia e una profonda riorganizzazione della propria presenza in Italia. È stata prevista la chiusura della sede di Porcia, e sono state avanzate delle proposte shock per la riduzione strutturale del costo del personale: sospensione degli effetti della contrattazione di secondo livello, che vale circa 130 euro al mese sugli attuali stipendi medi da 1.350, e taglio dell’80% dei 2.700 euro di premio aziendale, coll’aggiunta della riduzione dell’orario a 6 ore. L’obiettivo è giungere al taglio di circa 4 euro medi del costo del personale, valutato intorno ai 24 euro l’ora, per competere coi costi registrati dai concorrenti asiatici.I sindacati, ovviamente, hanno immediatamente «alzato un muro», chiedendo l’apertura d’un tavolo di trattativa, cosí come ha fatto l’attuale governatore della Regione Friuli–Venezia Giulia, Debora Serracchiani, indicando il possibile ricorso ai fondi per l’industria della Regione Autonoma. (Sempreché l’operazione non rientri nella fattispecie degli «aiuti di Stato» proibita dal Trattato UE — cosa che, d’altro canto, sembra piú che possibile.) Il raggiungimento di quest’obiettivo, però, nelle intenzioni della dirigenza, sarebbe il prodromo a un importante piano d’investimenti indirizzato allo sviluppo degli stabilimenti italiani, sottolineando l’intenzione di non abbandonare il Paese e d’essere attori d’un piano di rilancio. Ovvio che queste intenzioni non possano esser condivise dalla stragrande maggioranza degl’impiegati, né dai loro rappresentanti sindacali, che vedono nel taglio dei salari un punto critico nel mantenimento del potere d’acquisto e, perché no, nella sopravvivenza stessa degli operai, che vedrebbero le remunerazioni scendere ben sotto il livello di sussistenza a parità di prezzo nella zona friulana.La cosa che lascia perplessa la maggior parte degli osservatori è la fissazione, da parte delle aziende italiane, nell’abbattimento del costo del lavoro, cosa che si ripercuote sul livello salariale — quando, buste paga alla mano, non si può affermare che i lavoratori italiani percepiscano stipendi elevati. Nel caso Electrolux, s’intravede il vero problema dell’industria nella Penisola: i costi di gestione. Diversi commentatori hanno già parlato dell’insostenibile costo del personale, non tanto per la remunerazione, quanto per i costi occulti che s’aggiungono a quanto il dipendente vede in busta paga, e che prendono il nome di cuneo fiscale.

Ma la maggior parte delle aziende che hanno delocalizzato la propria sede negli ultimi anni s’è trasferita in Germania, Austria, Svizzera, USA: Stati dove il costo del lavoro è paragonabile al nostro. (Anche se i salari sono nettamente maggiori — indicatore della minore pressione fiscale e contributiva su di essi.) Quindi, non può essere veramente quella la discriminante per poter competere sui mercati. L’accento è posto sul mero costo del lavoro perché alla fine, per chi opera in Italia, i salari sono l’unica variabile di costo aggredibile. I costi piú rilevanti sono dal lato dell’approvvigionamento energetico, della logistica, della burocrazia («il tempo è denaro»), dell’incertezza giuridica, &c. Per sopravvivere, chi resta in Italia deve ridurre, obbligatoriamente, l’investimento pluriennale piú importante: quello sul personale.Questo è il punto piú importante: se un’azienda vuol sopravvivere in Italia, l’unica mossa che può compiere è la decurtazione dell’unico investimento vòlto alla crescita continua, quello sul personale, sia in termini salariali sia in termini formativi. Molti imprenditori che hanno scelto d’abbandonare l’Italia hanno potuto avviare politiche interne di crescita continua, di welfare integrativo, e applicare un piano premiante interno ben piú efficace e remunerativo di quelli esistenti oggi nel Paese. Dove sta la differenza, quindi, tra i vari sistemi? Nel peso dello Stato in ogni sua forma, fiscale e burocratica. Laddove esiste un sistema piú leggero, meno invadente, meno costoso, buona parte dei risparmi è adibita a un maggior investimento nelle risorse umane, permettendo cosí d’avviare un processo virtuoso di crescita del business continua — cosa, invece, impossibile in quest’Italia.

Il caso FIAT è ancor piú paradigmatico. Anni fa, si parlava di FIAT come d’un’azienda decotta, pronta al fallimento, appesantita da una gamma di modelli non competitivi e da una struttura elefantiaca sopravvissuta nei decenni solo grazie al finanziamento continuo da parte dello Stato, mediante decreti sulla rottamazione degli autoveicoli, il continuo ricorso alla Cassa Integrazione per ridurre il costo del personale in capo al Lingotto e trasferirlo allo Stato, e i vari provvedimenti protezionistici per favorirne la supremazia nel mercato interno italiano.Un giorno, qualcosa cambiò. Ai vertici di Torino, dopo la morte di Gianni Agnelli, fu chiamato Sergio Marchionne, e con la scomparsa anche d’Umberto Agnelli e l’approdo di John Elkann alla presidenza del gruppo s’avvertí una forte aria di cambiamento. Col rinnovo dell’alta dirigenza, si diede inizio a un rinnovamento completo dell’azienda, vòlto a valorizzarne i punti di forza (per esempio, nella produzione dei motori e della componentistica per auto) e a rinnovare il settore industriale piú penalizzante, quello dell’automobile, che — pur dovendo costituire il core business — era stato subordinato all’attività finanziaria fin dai tempi della dirigenza Romiti.In pochi anni, il debito pregresso fu ridotto, e la Fabbrica Italiana Automobili Torino raggiunse l’utile operativo ben prima del previsto, forte d’un nuovo piano industriale e di nuovi modelli d’auto che, in pochi mesi, cambiarono completamente l’offerta commerciale del gruppo. Un altro punto forte della politica di rinnovo fu l’uscita da Confindustria e la sottoscrizione d’un contratto nazionale di gruppo che sostituí il rigido CCNL metalmeccanico, portando sia una maggiore produttività negli stabilimenti sia un nuovo e piú vantaggioso regime salariale per gli operai. Non bisogna scordare, però, che un grande afflusso di liquidità giunse nelle casse di Torino con la rinuncia al put da parte di General Motors (che secondo i piani del defunto Avvocato doveva rilevare il settore auto di FIAT permettendo a FIAT holding di divenire primo azionista del colosso a stelle e strisce), cosa che permise di mettere ordine nei conti aziendali e sfruttare la crisi dell’auto americana per acquisire un pacchetto di controllo d’un marchio prestigioso, benché decaduto, come Chrysler.L’acquisizione del controllo di quest’ultima, avvenuta poco tempo fa, dopo che l’azione congiunta con FIAT l’aveva riportata in utile, ha imposto una scelta alla dirigenza. Il gruppo è divenuto il settimo produttore d’automobili mondiale, quello con piú marchi in portafoglio, alcuni dei quali — Ferrari e Jeep, ad esempio — sono dei simboli nell’immaginario mondiale. Per competere e crescere, la necessità era di strutturarsi come multinazionale e godere dei regimi piú favorevoli alla perpetuazione del business. Da qui la scelta di riunire le aziende sotto una sola holding, la FCA, con sede legale in Olanda e sede fiscale nel Regno Unito. Il perché di questa scelta è ovvio: la residenza legale in Olanda permette una stabilità maggiore nella governance, garantendo un voto privilegiato all’azionista di maggioranza, l’EXOR (quindi la famiglia Agnelli), e la residenza fiscale nello UK un regime fiscale agevolato sugli utili d’impresa e sui dividendi, lasciando piú risorse da ripartire agli azionisti e da destinare agl’investimenti (cosa che in Italia non sarebbe possibile, con un total tax rate al 65,8%).

Questi due casi sono rappresentativi, quindi, della situazione italiana: quella d’uno Stato nemico dell’impresa e della produzione di ricchezza perché divenuto totalizzante. Qui nulla può vivere al di fuori dello Stato, e tutto a esso torna per poterlo mantenere, con una pressione fiscale e contributiva che mai la storia ha visto, nemmeno nei regimi dittatoriali o negli Stati assoluti. Se il sistema non si riformerà a breve, sicuramente crollerà, asfissiato dalle sue stesse spire, portando con sé una cultura imprenditoriale millenaria che, dall’epoca dei Comuni medievali a oggi, ha permesso che una terra priva di vere risorse naturali, che non fossero la varietà enogastronomica e le bellezze culturali e ambientali, diventasse uno dei Paesi piú industrializzati e ricchi al mondo ma che oggi, come da oltre vent’anni, è sulla via d’un continuo e sempre piú rapido declino.

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